Segnaliamo un articolo sul sistema duale pubblicata sul portale secondowelfare.it. Troverete alcune riflessioni sulla frammentata offerta di istruzione e formazione professionale presente sul territorio italiano, caratterizzata dal virtuosismo di poche regioni. L’autore parla poi di apprendistato e di sistema-duale, portando un confronto con il sistema tedesco.
Ruggero Cefalo è PhD Student in Sociologia – Governance, Partecipazione Sociale e Cittadinanza presso il Dipartimento di Economica, Società, Diritto dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e junior researcher nel progetto INSPIRES – Innovative social and employment policies for inclusive and resilient labour markets in Europe, co-finanziato dall’Unione Europea. Attualmente è Visiting PhD Student presso l’IAQ – Institut Arbeit und Qualifikation dell’Università di Duisburg-Essen. I suoi principali interessi di ricerca sono l’analisi comparata delle politiche di welfare e dei sistemi di transizione scuola-lavoro.
I giovani rappresentano in Italia un gruppo di outsider sul mercato del lavoro, come dimostrato dagli alti livelli di disoccupazione giovanile, ma anche della larga diffusione di impieghi atipici con alto rischio di precarietà. Queste condizioni di difficoltà sono collegate agli scarsi investimenti (e la scarsa efficacia degli stessi) in termini di input (spesa per educazione e partecipazione della popolazione) e output (esiti dei percorsi e competenze sviluppate) del sistema educativo.
In questo senso, la situazione italiana appare caratterizzata da deboli collegamenti tra filiere produttive e formative che costituiscono il fondamento delle iniziative di raccordo scuola-lavoro. In questo articolo ci soffermeremo sulla configurazione istituzionale del sistema di formazione delle competenze in Italia, in particolare sulla formazione professionale. Cercheremo poi di illustrare il ruolo delle recenti riforme nel tentativo di costituzione di un “sistema duale” efficace nel combinare istruzione e lavoro.
I percorsi dell’istruzione secondaria superiore e la debolezza della formazione professionale
In Italia il sistema di istruzione secondaria è caratterizzato da un dualismo scarsamente bilanciato tra la filiera generalistica e orientata alla prosecuzione degli studi all’università, e la filiera della formazione professionale. Il secondo ciclo del sistema di istruzione e formazione (scuola secondaria superiore) comprende il percorso generalistico (licei) o quello dell’istruzione professionale (istituti tecnici o professionali), entrambi a responsabilità statale; oppure il percorso dell’istruzione e formazione professionale a responsabilità regionale (IeFP) (INDIRE, 2014). La riforma costituzionale del 2001 ha infatti modificato il ruolo delle istituzioni locali nel campo dell’educazione, assegnando alle regioni la responsabilità esclusiva per la formazione professionale. Ciò non ha tuttavia condotto al trasferimento della formazione professionale dallo Stato alle regioni, ma all’istituzione di una filiera di formazione professionale regionale definita nelle sue linee essenziali dal Ministero ma gestita dalle istituzioni regionali, in parte parallela rispetto a quella nazionale. La riforma Gelmini del 2008 è ulteriormente intervenuta per ridisegnare i confini interni al sistema VET (vocational education and training), diminuendo i contenuti tecnico-professionali dell’insegnamento negli istituti tecnici e professionali e abolendo il diploma di 3 anni conseguibile negli istituti professionali (Ballarino, 2015).
L’IeFP regionale è costituito da attori che partecipano ai bandi emanati dalla Regione per l’organizzazione dei corsi. Questi ultimi possono essere tenuti all’interno di istituzioni formative riconosciute dalla regione, o da istituti scolastici di livello secondario (professionali) che, seguendo le indicazioni regionali per l’organizzazione della formazione professionale, costituiscono corsi in sussidiarietà complementare o integrativa (ISFOL, 2015).
Guardando ai rapporti tra le filiere del sistema secondario in termini di iscrizioni, si nota uno schiacciamento verso l’educazione generalista e liceale. Inoltre, il sistema della formazione professionale appare interessato da un processo di liceizzazione o accademizzazione, diventando una forma ibrida che tende a replicare in modo crescente contenuti e modalità di insegnamento del percorso liceale. Concludendo su questo punto, la filiera della formazione professionale in Italia non appare ancora pienamente sviluppata rispetto alle proprie potenzialità di anello strategico di raccordo tra istruzione e lavoro. Il sistema VET è sbilanciato verso il filone dell’educazione generalista con una viceversa accresciuta separazione rispetto al mondo del lavoro. Questa debolezza della formazione professionale è ricollegabile a tre principali motivazioni.
Il primo motivo rimanda alla configurazione istituzionale del sistema, segmentato lungo le dimensioni della responsabilità istituzionale e della frammentazione territoriale, più che secondo una dimensione di distribuzione delle competenze (Ballarino, 2013). Come detto, le alte aspettative che avevano accompagnato l’istituzione della IeFP come filiera fortemente professionalizzante, non hanno condotto alla creazione di un’unica filiera scolastica centralizzata contrapposta ad una filiera IeFP gestita interamente dalle regioni.
In secondo luogo, la mancanza di adeguate e stabili fonti di finanziamento (vista la volatilità dei finanziamenti regionali, vincolati a bandi e quindi spesso irregolari nel tempo) e il debole coordinamento tra regioni nella regolazione della materia, hanno generato un’ampia variabilità tra territori come dimostrato dalla diffusione diseguale sul territorio nazionale delle istituzioni formative riconosciute dalle regioni (ISFOL, 2015). Questo implica differenze di opportunità per gli individui, a seconda della regione di origine, e finisce per riprodurre le linee di segmentazione territoriale che caratterizzano il nostro paese.
La terza ragione alla base del limitato sviluppo del sistema VET italiano sta nella separazione di lungo periodo tra scuole e aziende, come risultato di una radicata percezione culturale di separazione tra studio e lavoro, tra attività intellettuale e attività manuale, che rappresenta un tratto caratterizzante del sistema educativo italiano.
Le riforme dell’apprendistato e dell’alternanza scuola-lavoro
Il recente intervento di riforma della “Buona Scuola” così come il Jobs Act hanno posto al centro dell’attenzione la questione della separazione tra educazione e lavoro, nonché l’incapacità del sistema di formazione professionale di fungere da principale punto di raccordo tra tali ambiti. Questo obiettivo è stato perseguito attraverso la modifica di due strumenti di policy: l’alternanza scuola-lavoro e l’apprendistato.
Delle difficoltà dell’apprendistato italiano si è già detto in un articolo precedente (Cefalo, 2015). Pur essendo un contratto a causa mista che coniuga formazione e lavoro, l’apprendistato nel nostro paese occupa una posizione ibrida e solo in parte inscrivibile nel sistema di istruzione e formazione tecnica e professionale iniziale. Il quadro complessivo è quello di un sistema fortemente squilibrato dove le due forme di apprendistato scolastico, che consentono di ottenere al contempo un titolo di studio di istruzione secondaria o terziaria e una qualifica professionale, hanno una diffusione marginale, spesso ancora legata a sperimentazioni e buone pratiche locali che stentano a istituzionalizzarsi. Le caratteristiche attuali del sistema di apprendistato italiano sono dunque sostanzialmente riferibili all’apprendistato professionalizzante di II livello. Tale tipologia contrattuale si connota per una dimensione marcatamente aziendalistica; per l’assenza di una compiuta integrazione con il sistema educativo; per un’utenza sempre più composta da giovani adulti; per una tendenza all’indebolimento della componente formativa, come dimostrato dal progressivo taglio delle ore di formazione e dal basso tasso di partecipanti ai corsi di formazione regionale.
L’apprendistato italiano risulta insomma uno strumento svuotato delle sue principali potenzialità in termini di raccordo scuola-lavoro e promozione di un’occupazione di qualità. La causa mista che ne costituisce l’essenza sembra sempre più schiacciata verso il versante dell’abbattimento del costo del lavoro per l’impresa, mentre il versante formativo ha subito negli anni una progressiva marginalizzazione. Dal punto di vista dell’impatto occupazionale, i dati disponibili dimostrano inoltre come il sistema di apprendistato in Italia non sia risultato uno strumento di policy efficace nel contrastare le difficoltà incontrate dai giovani nel mercato del lavoro.
Il processo di riforma del contratto di apprendistato è proceduto negli ultimi anni attraverso continue modifiche normative, che hanno tolto certezze agli operatori ostacolando lo sviluppo di un sistema di radicato, in cui tale contratto rappresenti uno strumento effettivo per la valorizzazione del capitale umano. Anche i più recenti strumenti di promozione attraverso incentivi economici introdotti dal Jobs Actpongono molti dubbi di efficacia rispetto, ad esempio, alla concorrenza di tirocini gratuiti per le imprese resi disponibili dalle nuove norme sull’alternanza, in un contesto in cui sembra mancare una rilevante componente per il successo di tale forma contrattuale, ovvero una percezione culturale positiva e che valorizzi l’apprendistato. In questo senso, il gap culturale dell’apprendistato all’italiana rimanda alla ristretta concezione dell’apprendistato come contratto scarsamente appetibile, diretto per lo più a chi ha avuto forti difficoltà nel percorso scolastico, e riguardante soprattutto occupazioni a basso livello di competenze.
L’idea diffusa nel mondo delle imprese e in generale nella nostra società è infatti ancora troppo spesso quella di un apprendistato “informale”, in cui i contenuti del mestiere possono essere appresi semplicemente tramite l’affiancamento e l’osservazione del collega con più esperienza. Vi è una differenza sostanziale rispetto a quanto accade ad esempio in Germania o in Austria, laddove alla scarsa percezione delle abilità e qualità di un apprendista in Italia fa da contraltare l’alto valore e la dimensione sociale (non semplicemente di occupazione individuale) generalmente attribuita alla formazione nell’ambito del sistema duale tedesco. Quest’ultimo offre generalmente ai giovani un passaggio verso un’occupazione di qualità, contribuendo così in modo decisivo agli alti tassi di occupazione e al contenutissimo svantaggio relativo nei confronti dei lavoratori adulti.
Uno dei principali interventi riformatori della legge 107/2015 conosciuta come “La Buona Scuola”, è costituito dall’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro come esperienza obbligatoria per gli studenti che hanno intrapreso un percorso di istruzione di secondo livello superiore. Il provvedimento implica dunque l’estensione e la promozione dell’alternanza scuola-lavoro già introdotta nel 2008, prevedendo l’acquisizione di competenze tramite esperienze di stage, osservazione o simulazione di ambienti lavorativi, o infine contratti di apprendistato.
Il nucleo del provvedimento riguarda un ampio programma di finanziamento di tirocini curricolari e altre attività connesse. L’alternanza diventa obbligatoria a partire dal terzo anno delle scuole secondarie, sia nei licei (200 ore l’anno) sia nei tecnici e professionali (400 ore l’anno). I tirocini possono essere attivati all’interno di aziende, istituzioni pubbliche o private (musei, biblioteche, ad esempio) o in aziende simulate all’interno di scuole o istituzioni educative. Oltre a regolare i percorsi formativi in alternanza (diritti e doveri di studenti e attori coinvolti, procedure da rispettare per l’intrapresa dei percorsi), lo stato interviene attivamente fornendo risorse aggiuntive alle scuole e per coprire i costi dei tirocini. Presso le Camere di Commercio è inoltre istituito il Registro Nazionale per l’Alternanza, dove aziende o istituzioni pubblico/private che intendono ospitare tirocinanti devono specificare le proprie disponibilità a riguardo.L’alternanza diventa così una parte integrante del percorso formativo, che si articola in una componente di apprendimento tradizionale in aula, e in una componente di apprendimento sul luogo di lavoro (le esperienze di alternanza faranno parte del curriculum dello studente), al fine di rendere questa esperienza duale (apprendimento a scuola e sul luogo di lavoro) un carattere distintivo e diffuso del sistema italiano di transizione scuola-lavoro.
Così come il Jobs Act, e in particolare il decreto legislativo 81/2015 che riforma il contratto di apprendistato finalizzato all’acquisizione di un diploma di istruzione secondaria superiore, la Buona Scuola va ricondotta all’impegno dell’Italia all’interno della European Alliance for Apprenticeships. Lo Stato italiano si è impegnato infatti a promuovere un apprendimento maggiormente work-based nei cicli educativi secondario superiore e terziario, al fine di ridurre la disoccupazione giovanile e facilitare la transizione delle giovani generazioni alla vita attiva, riducendo così il gap con le migliori esperienze europee (tra cui la Germania è immancabilmente segnalata come esempio e modello). Il fatto che due provvedimenti legislativi siano intervenuti sul sistema VET ha creato alcuni dubbi sulla sovrapposizione delle misure. Inoltre, la frammentazione del sistema VET in termini di competenze tra Stato e regioni, ha reso necessario un ulteriore passaggio per l’estensione della riforma all’IeFP.
Per quanto riguarda il primo punto, la Guida Operativa per l’Alternanza pubblicata dal MIUR (2015) afferma che l’alternanza e l’apprendistato siano da considerarsi come due differenti strumenti di raccordo tra il sistema educativo e il mercato del lavoro. L’alternanza viene infatti definita metodologia didattica che si compone di una combinazione di apprendimento in aula e sul posto di lavoro. L’esperienza pratica nelle imprese non è tuttavia accomunabile ad una rapporto di lavoro, in quanto costituisce un’integrazione dell’attività formativa principale, che resta quella scolastica. La scuola rappresenta infatti il principale attore coinvolto nella gestione della misura di policy, dal momento che detiene la responsabilità per la gestione e organizzazione dell’attività in alternanza.
L’apprendistato è invece un contratto di lavoro a tempo indeterminato a causa mista, finalizzato cioè al contempo alla formazione e all’occupazione del lavoratore. Le obbligazioni reciproche tra gli attori coinvolti sono regolate da leggi nazionali e regionali, e dalla contrattazione collettiva per alcune questioni specifiche. Esso implica dunque un passaggio di status dell’individuo (da studente a lavoratore), e può essere uno strumento attraverso cui si realizza la metodologia dell’alternanza, così come un’ideale prosecuzione di un percorso in alternanza effettuato tramite tirocinio. Tuttavia, mentre l’alternanza scuola-lavoro rappresenta un passaggio obbligato per il percorso formativo dello studente, i contratti di apprendistato sono invece stipulati su base volontaria. Come notato da Balsamo (2015), la Guida Operativa non chiarifica in modo del tutto soddisfacente l’esistenza di sovrapposizioni e la differenza tra i due strumenti, di conseguenza il frame normativo non appare del tutto stabile e coerente, con possibili conseguenze in materia di implementazione e incertezza degli attori.
Per quanto riguarda il secondo punto, cioè l’estensione dell’alternanza all’IeFP, facendo seguito ad un precedente accordo siglato in Conferenza Stato-Regioni, sono stati firmati accordi con le singole regioni per dar vita a un progetto sperimentale che in 2 anni dovrebbe coinvolgere 60.000 studenti attivi nell’IeFP regionale, affinchè questi possano conseguire una qualifica o un diploma professionale regionale anche attraverso la metodologia dell’alternanza, espandendo così i contenuti di esperienza pratica della formazione professionale regionale con lo scopo di favorire l’occupabilità dei giovani (Cefalo & Vesan, 2016). [Per bandera: add link nel testo]
La via italiana al sistema duale: la logica della formazione professionale
Quali sono dunque, alla luce di quanto detto, gli elementi che costituiscono il nucleo della formazione professionale italiana e informano di sé la logica del sistema? Come abbiamo visto, la difficile costituzione di un sistema integrato di formazione professionale, tale da includere ampie porzioni di esperienza pratica in azienda, ha trovato la sua principali espressione nella riforma dell’apprendistato e dell’introduzione di schemi obbligatori di alternanza scuola-lavoronell’istruzione secondaria. Nelle intenzioni della normativa, ciò dovrebbe condurre alla costituzione di un’ambiziosa “via italiana al sistema duale”, con evidenti richiami al modello del sistema duale tedesco, in cui la combinazione obbligatoria di formazione in aula e sul posto di lavoro, anche in apprendistato, farà parte di tutto il percorso di istruzione secondaria.
Nonostante le enfatizzazioni del discorso politico, tuttavia, occorre innanzitutto chiarire che la formazione professionale italiana resta stabilmente fondata sulla scuola. La componente duale si risolve nell’obbligatorietà di tirocini formativi ed esperienze connesse, che dovrebbero fornire agli studenti competenze tacite e specifico-pratiche di esperienza in azienda, utili per facilitare il loro successivo ingresso nel mercato del lavoro. Non cambia però lo status degli studenti né il ruolo centrale degli istituti scolastici rispetto agli altri attori coinvolti (principalmente le aziende). In questa configurazione istituzionale, inoltre, il ruolo dell’apprendistato appare marginale e in parte sovrapponibile ai tirocini. Rispetto alla Germania, manca poi una tradizione di cooperazione di lungo periodo tra attori nella gestione della formazione professionale. I principali attori della formazione professionale, oltre allo stato e alle regioni, sono innanzitutto le scuole e in secondo luogo le aziende. A conferma di ciò, i sindacati hanno ad esempio recentemente lamentato di essere stati scarsamente coinvolti nell’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro obbligatoria, così come nella gestione dell’apprendistato formativo (Cefalo & Vesan, 2016).
Il contesto italiano si caratterizza per lo sviluppo di forti barriere tra educazione e lavoro, con origine alla fine del 19esimo secolo, che ha contribuito all’indebolimento dei legami tra scuole e aziende anche nel comparto tecnico-professionale. Parallelamente, l’apprendistato si è invece sviluppato nelle aziende, mentre un legame istituzionale con il sistema formativo è stato istituito solo nel 2003, con l’introduzione dell’apprendistato di I e III livello (Anastasia, 2013). Questo aiuta anche a comprendere perché l’integrazione dell’apprendistato con le scuole e in generale con la formazione abbia incontrato resistenze da parte delle imprese, che tendono a non considerare favorevolmente il fatto che l’apprendista si allontani dall’azienda per le attività di formazione esterna.
Un ulteriore problema è rappresentato dalle certificazioni rilasciate agli studenti. Nel 2013 sono stati introdotti standard nazionali relativi a 22 figure per la qualifica professionale e 21 per il diploma professionale nell’IeFP, conseguibili anche in apprendistato formativo. È stato successivamente costituito un comitato tecnico, che non comprende la partecipazione delle parti sociali, per dar corpo a un quadro operativo nazionale per la certificazione delle competenze. Accanto ai progressi sull’infrastruttura istituzionale (Conte, 2016), occorre tuttavia sottolineare la persistente assenza di attori, diversi dalle istituzioni scolastiche, in grado di assicurare la qualità della formazione esterna alla scuola, sia per l’alternanza sia per l’apprendistato. Su questo punto si misura ancora l’importante distanza rispetto alla consolidata esperienza tedesca.
Concludendo, in Italia lo squilibrio tra educazione generalistica e formazione professionale, la lunga separazione tra momento educativo e momento lavorativo e i deboli legami tra scuole e imprese, hanno rappresentato il background delle recenti riforme. La configurazione istituzionale della riformata formazione professionale italiana continua a basarsi sulla centralità dell’istituzione scolastica: risponde alla logica di una “dual education” che mira a combinare apprendimento a scuola e sul luogo di lavoro, ma non costituisce un sistema duale integrato come quello tedesco. In Germania, circa il 60% di ogni coorte giovanile comincia il proprio percorso educativo secondario superiore nel sistema duale, finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale rilasciata dalle Camere di Commercio e Industria, e dell’Artigianato in conformità agli standard regolativi emanati dall’Istituto Nazionale per la Formazione Professionale. All’interno del sistema duale, i giovani apprendisti assumono il doppio status di lavoratori (assunti da un impresa) e studenti (che frequentano una scuola professionale part-time).
Nella formazione professionale italiana, invece, la componente scolastica assume il ruolo principale: esistono differenti filiere sulla base di differenti istituzioni scolastiche o educative, e differenti responsabilità distribuite principalmente tra stato e regioni. L’apprendistato formativo rappresenta uno strumento marginale dal punto di vista della diffusione e non costituisce un percorso professionale autonomo, laddove il principale strumento per la realizzazione dell’educazione duale in Italia è costituito innanzitutto, ad oggi, dai tirocini curriculari. Per quanto riguarda l’efficacia degli stage nel ridurre la penalizzazione dei giovani sul mercato del lavoro, i risultati dalle ricerche valutative comparate sono meno evidenti rispetto all’apprendistato, per via dell’altissima varietà di schemi rilevabili in Europa. Occorrerà comunque del tempo per comprendere se il focus sull’alternanza si tradurrà in una stabile configurazione istituzionale, e se l’implementazione delle politiche promosse condurrà ad un effettivo miglioramento dell’occupabilità dei giovani. Le recenti riforme del sistema VET in Italia, non configurano insomma una novità radicale in termini di configurazione istituzionale del sistema e di responsabilità degli attori coinvolti, quanto un’estensione di attività già previste i cui effetti, in termini di carico organizzativo aggiuntivo per le scuole e effettivo valore formativo per i giovani, potrà essere valutata compiutamente negli anni a venire.
Ruggero Cefalo – Fonte: secondowelfare.it
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